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Il Pantesco
Risultanza di molti popoli che si succedettero nei secoli, il
pantesco tipo ha carnagione bruna, capelli e occhi castani o neri,
statura medio-alta.
Il vivere in un Isola non incise sulla formazione di un carattere
introverso, anzi concorse a fargli sentire il bisogno di conoscere, di
accogliere il nuovo pur nel rispetto della tradizione.
E poiché nel passato la maggioranza della popolazione era dedita
all'agricoltura e la vita era sana, il pantesco gode di buona salute
insidiata un tempo soltanto dai matrimoni tra consanguinei, determinati
per riunificare proprietà già frazionate.
Il pantesco ha spirito indipendente, franco, carattere come recita il
Dott. Brignone Bocca Nera nel suo lavoro su Pantelleria, "non troppo
servile" attribuendo tale requisito al fatto che l'Isola ebbe tardi un
feudatario e che questi non vi abitò mai. Pertanto il voscenza (il
vossignoria) non fu mai in uso come in Sicilia e nel Napoletano.
Per Lui, la sua Pantelleria è un'Isola come la Sicilia è un Isola più
grande e più dotata... per Lui tanto ci sarebbe da chiedere... ma per
fierezza e dignità non ha mai chiesto due volte... solo per cause
esterne ha avuto aeroporto e vie rotabili. Ha il pregio della pazienza e
la virtù della speranza di un domani diverso, forse migliore. E questa
sua filosofia direi stoica, lo fa andare avanti, vivere senza disperare,
conservando di chi lo ha nei secoli preceduto, le peculiari
caratteristiche. Infatti dalla bella Calipso dai riccioli doro, che
dalla grotta di Sataria accolse il pellegrino Ulisse, il pantesco
ereditò l'arte dell'ospitalità. Se il forestiero di sofferma davanti ad
un dammuso per un informazione, rimane coinvolto dalla cordialità del
proprietario che lo invita a sedersi sulla ducchena, ad accettare un
bicchiere di passito di Pantelleria, unitamente ad un grappolo di biondo
zibibbo.
Dai Fenici, l'uomo pantesco ereditò l'arte della navigazione. Di fatto
negli ultimi due secoli velieri guidati dai capitani panteschi con
equipaggio locale solcarono le acque diretti a Marsala, Sciacca,
Agrigento, Napoli, Livorno e Malta per portarvi zibibbo, capperi, uva
passa e vino.
Dagli arabi il pantesco apprese l'arte dell'agricoltura e fu agricoltore
per eccellenza, ma ereditò, purtroppo, l'arte di non aver fretta, la
tipica flemma araba, l'arte del rimandare al domani qualsiasi faccenda,
di non tener conto del tempo... per questo ultimo aspetto non è mai
puntuale agli appuntamenti. C'e' tempo... ora... Questo l'eterno
ritornello.
Gli spagnoli gli trasmisero l'arte della galanteria. Dall'ambiente il
pantesco del tempo passato apprese la capacità di adattarsi per cui
scavò la pietra per ricavarne le cisterne. Usò la pietra per costruire
il dammuso, il giardino, i muri a secco, vere opere d'arte, escogitò la
tecnica di far crescere gli alberi bassi per combattere il vento e
imparò a saper darsi da fare per avere gli alimenti necessari alla
nutrizione. La sua casa, una piccola curtis, con le stalle, gli animali
e il piccolo appezzamento di terreno così prodigo.
Il soprannome (U gnurio)
I cognomi più diffusi a Pantelleria sono:
Almanza, Belvisi, Bonomo, Brignone, Busetta, Casano, Culoma, D'Aietti,
D'Ancona, Di Malta, Errera, Ferreri, Gabriele, Maccotta, Rizzo, Salerno,
Silvia, Siragusa, Valenza.
Ne deriva che molti nuclei familiari abbiano lo stesso cognome, pertanto
per evitare errori di riferimento nel linguaggio quotidiano, i panteschi
trovarono il modo di dare una soluzione a questa diffusa omonomia e
pertanto al nome di battesimo aggiunsero un soprannome derivato dalle
caratteristiche fisiche, abitudinarie o di comportamento o di lavoro o
di capacità intellettuali o di provenienza.
Alcuni soprannomi sono antichi cognomi scomparsi di cui si sconosce il
motivo della nuova funzione.
Era abitudine e lo è tutt'oggi, specie nelle campagne, quando si parlava
e si parla della moglie o dei figli del tizio o del caio, fare
riferimento al capo famiglia, aggiungendo il soprannome, esempio: Rosa
di Turi Arino.
Spesso il soprannome del coniuge o del padre, veniva trasmesso alla
moglie e ai figli, esempio: Totò Iudici -> Annina Iudici o Annina di
Totò Iudici, esempio: U Liparoto (padre), Marianna Liparota (la figlia),
Guerra (padre), Guerra (i figli).
L'uso quotidiano del soprannome fa dimenticare agli stessi panteschi il
cognome, tanto da soffocarlo e da fare incorrere il turista ignaro in
situazioni comiche.
Si riportano di seguito alcuni soprannomi indicando la loro genesi:
- Arinu, dal cognome Arinus sec. XIX
- Basciana, dal cognome Basciano del 1684
- Canalli, dal cognome Canali 1600
- Cancilleri, dal cognome Cancellieri 1813
- Cavaleri, dal cognome presente a Pantelleria nel 1647
- Ciapparedda, dal cognome Chiapparedda vissuto tra il 700 e l'800
- Ciofalo, dallo stesso cognome 1787
- Fiscale, dal cognome Fiscale 1630 o dalla funzione di riscuotere il
fisco
- Guerra, proprietario dell'Asina pantesca che è sopravvissuta alla
guerra
- Iudici, dal cognome Iudice 1800 o perchè emetteva sentenze
- A Greca, dal cognome A Greca 1638
- Miranna, dal cognome Miranda 1705
- Panzavecchia, dallo stesso cognome 1742
- Pirullino o Pirolu, dal cognome Perolli o Pirollu
- Ruviddu, da Ruiddo 1751
- Sanzuni, dal cognome Sanzone 1606 o per la prestanza fisica
- Tripulino, dal cognome Tripolino 1671 o dalla provenienza da Tripoli
- Liparoto, per la sua attività commerciale con Lipari
- U Palermitanu, per la provenienza da palermo
- Faxino, per la sua provenienza da Sfax
- Burgaro, perchè abitante nel borgo
- A Bianculina, perchè albina
- A Bufirina, perchè piccola
- A Mustazzusa, per la pronunciata peluria sul labro
- A Pupa, per la cura del vestire
- A Crucifissa, per il fisico magro e l'aspetto addolorato
- A Monica, per la religiosità
- U Bbaddianu, per l'abitudine di vantarsi
- Bruciaferro, per l'attività di fabro
- Carrettu, per l'attività di carrettiere
- Micci, per la negativa dote di provocare liti come la miccia che causa
esplosione
- Pappagaddu, perchè aveva pappagalli
- Coce e Mancia, per la preferenza del cucinare e del mangiare
- Pappune, da pappa, quindi persona a cui è gradito il mangiare
- Muccabbaddrottuli, per la preferenza di mangiare polpette
- Manciaforte, per l'uso di mangiare cibi ben conditi
- Muccapinseri, forse per l'interesse di venire a conoscenza dei fatti
altrui
- Muffuletta, persona dall'aspetto ben pasciuto, simile ad una
muffuletta
- Manichinu, per il fisico magro e affusolato come l'uncinetto
- Cartapalina, per la magrezza trasparente come la carta palina
- Figurinu, per l'eleganza
- Musca, noioso e fastidioso come la mosca
- Panzamodda, perchè non sa mantenere un segreto
- Naschilorde, per le narici sporche
- Musulinu, per il carattere forte dittatoriale come Mussolini
- Cinnanà, perchè trasandato nell'abigliamento
- Cittola, tagliente nel parlare come l' accetta che spacca il legno
- Durmutu, per il suo fare flemmatico
- Fastiddiu, perchè causa disturbo agli altri
- Liccapane, per il cibo modesto e quindi persona avara
- Mandulinu, perchè suonatore di mandolino
- Lignutorto, per il carattere contorto
- Sarvaddiu, per il fare poco socievole
- Settimisi, per la nascita al settimo mese
- U Scenziatu, per il fare da sapiente
- Vuccaperta, per l'abitudine di stare con la bocca semi aperta
e tanti altri come Vuccatorta, Narà, Guardaceli, Minò, Raviella, Tingarè, Cazzarola,
Zicca di Vacca, U' Bruciatu, Taddiarina...
La società pantesca dall'800 al 1943
Nel secolo XIX il classismo era misura d'obbligo di pochi ricchi
proprietari terrieri, scrupolosi osservanti di norme che regolavano la
vita.
Pertanto nella società dell'Isola all'apice della piramide stavano
coloro che possedevano molte terre, affiancati in minima parte da
professionisti. A costoro spettava il Don, di chiara derivazione latina:
il dominus, divenuto Don, stava a significare signore, padrone. E
pertanto vi erano i Don Turiddu, i Don Chicchinu, Don Totò e al loro
fianco Donna Maria, Donna Francischina.
Su un gradino inferiore della piramide stavano i capitani dei velieri,
ai quali andava l'appellativo di Patrùn = padrone, perchè padroni
dell'imbarcazione o di una parte. Per ciò Patrùn Cola, Patrùn Titta.
Seguivano dopo gli artigiani, ai quali si dava il titolo di Mastru, per
cui Mastru Giuvanni, Mastru 'Ntoni.
Alla base piramidale tutti i braccianti, il cui nome di battesimo era
preceduto dall'appellativo Zzù, quindi Zzù Matteo, Zzà Niculina.
La furia bellica del secondo conflitto mondiale non abbatté soltanto il
centro di Pantelleria, ma lentamente anche la mentalità, accumunando
tutti nel dolore e nella speranza di una vita nuova basata sulle
capacità del singolo.
Come vestiva il pantesco
Significativo quanto riferisce Alberto Marino Rizzo nell'articolo "I
Corsari Barbareschi nelle coste mazaresi e nel canale di Sicilia": "...intorno
all'anno 1599 il Vescovo di Mazara Luciano De Rubeis... raggiunge
Pantelleria... istruendo... ordinò al clero locale che i fanciulli non
venissero istruiti nella lingua arabica né adoperassero vestimenti di
foggia moresca...".
Dal documento citato risulta che il modo di vestire comune nei socoli
XVI, XVII era di tipo arabo. Nel secolo XVIII l'abbigliamento era molto
modesto in quanto rispecchiava la vita fatta di stenti e oberata da
tasse a cui era sottoposta la popolazione sotto il dominio spagnolo.
La materia prima veniva data dalla terra, dove si coltivava il cotone.
In ogni casa v'erano fuso e telaio, indispensabili per la filatura e la
tessitura alla quale seguiva la tinteggiatura. Il fai da te era il
ritornello di quei tempi. Le persone anziane erano maestre del fuso e
del telaio, nonché del cucito. Si confezionavano abiti lunghi fino alla
caviglia e pantaloni, scialli e fazzoletti che coprivano la testa delle
donne. Lunghi berretti di cotone o di lana lavorata e tinta di giallo
con la paglia proteggevano il capo degli uomini; le scarpe contadine
erano di cuoio ordinario e grossolano, chiamate majorchine, per cui i
piedi venivano protetti da fasciature. Nel proseguo degli anni si fece
uso delle calze confezionate della nonne.
I ricchi vestivano alla spagnola: prima calzoni di seta e calze lunghe
dai colori vivaci, scarpe con fibbia d'argento, giubba corta con bottoni
dorati o argentati, in seguito abiti neri o a colori di panno, cappello
a cilindro.
Nella seconda metà dell'ottocento si registrò un'evoluzione. Alla
majorchina subentrarono gli stivalini o mezzi stivali e le scarpe anche
di pelle lucida; agli abiti di teli indigene quelle di frustagno, di
lana, di grinino "...ben confezionati da sarti e anche per la generalità
degli abitanti, ai berretti di cotone o di lana fatti a casa, berretti
dalle forme più bizzarre e cappelli Borsallino".
Le donne non coprono più il capo con lo scialle ma con il cappellino e
la veletta; le vesti di cotone o di tela lasciano i posto a quelle di
lana o di seta e lo scialle viene sostituito dal cappotto. Da allora in
poi si registra l'omologazione ai costumi peninsulari.
Il lavoro del pantesco nel passato
Fra mare e terra i nostri antenati scelsero la terra e furono
agricoltori per eccellenza, mai pescatori di professione. Questa realtà
sociale trae origine storica. Così scrive il Dott. Brignone Boccanera
nel suo lavoro: "viene posta in essere la saggia politica agraria
araba, la quale ostile al latifondismo... stimola l'iniziativa privata,
creando le piccole proprietà", da ciò deriva l'interesse dell'uomo
per la terra. Dappertutto costruì muri a secco, in particolare nelle
colline per impedire alle piogge di causare danni irrimediabili,
trascinando con furia tutto ciò che l'acqua incontrasse nel suo
passaggio e coltivò con amore la terra ed ebbe cura delle piantine di
cotone introdotto dagli arabi nell'835 o quelle di orzo le cui sementi
aveva gettato nei solchi.
Il contadino di Pantelleria, nel periodo della dominazione araba
nell'Isola, piantò ulivi e agrumi i cui frutti, a differenza del cotone,
non vennero esportati ed infine, a seguito dello scioglimento dei
diritti promiscui (1844) e della cessione delle terre del Principe
D'Aragona al Comune, andò a coltivare le terre più lontane a vigneto.
Per evitare i danni dei venti il pantesco fece crescere le viti basse e
così pure gli ulivi, potendoli con arte, mentre ad ogni pianta di vite
fece una conca, sia perchè potesse avere benefici del calore del sole,
sia per accogliere l'acqua della pioggia.
Nella seconda metà dell'800 iniziò a coltivare il cappero, pianta
spontanea dell'isola di Pantelleria, la cui raccolta dei frutti lo fa
alzare all'alba con la moglie ed i figli e questo lavoro era ed è tutt'oggi
faticoso, perchè si deve stare chini sulla pianta per raccogliere i
capperi ogni sette, otto giorni, onde evitare che s'ingrossino troppo e
che fioriscano.
Le piante di cappero e la vite richiedono molto lavoro: il contadino
deve concimare, potare, zappare e infine pensare al raccolto. Anche lo
zibibbo, come il cappero, richiede per la raccolta il sudore della
fronte perchè bisogna star chini sulla pianta.
Agli inizi del 900 il lavoro del contadino divenne più duro perchè oltre
a coltivare le terre produttive con la zappa, l'aratro tirato dall'asino
o dal mulo, dovette dissodare terreni per farli diventare vigneti, data
la rilevata richiesta di zibibbo da parte dei mercati nazionali. Ben
5.200 ettari di terra vennero in tal modo resi fertili dall'assiduo
lavoro delle braccia dei nostri padri che conoscevano il riposo, forse
la domenica e nelle feste solenni.
Nel periodo estivo sotto il sole cocente, il pantesco continuava il
lavoro iniziato all'alba: tagliava i grappoli di zibibbo e li sistemava
nelle gabbiette per l'esportazione. Una parte del raccolto veniva
trasportato nello stenditoio per la malaga o la bionda. Ed il lavoro
continuava perchè il contadino doveva fare il vino, il moscato, il
passito... sempre in attività, eccolo davanti agli alberi di fichidindia
"a scutulare" cioè a scuotere per far cadere i primi frutti onde
ottenere frutti grandi e succosi, "i Bastarduni".
Dopo la vendemmia il pantesco raccoglieva con cura i sarmenti e i
ramoscellli che servivano ad alimentare il fuoco dei fornelli e andava
in montagna per raccogliere la legna che sarebbe servita a fare il
carbone.
Veramente industrioso e paziente era il pantesco di un tempo, perchè nei
"margetti" e nelle "matarette" fra i filari delle viti tracciava i
solchi dove buttava il seme delle fave, dei piselli, dei meloni o
sotterrava le patate e le cipolle; sapeva far tesoro della più piccola
strisci di terra... sapeva far buon uso del tempo; difatti, quando la
pioggia gli impediva di andare nel campo, da contadino si trasformava in
artigiano, intrecciava sarmenti di ulivo e strisce di canna per
confezionare "panara" e "cuffina", reti e nasse o paramenti per l'asino.
Ed infine, con pazienza certosina, riusciva a trasformare una pietra in
ciotola per il cane o in abbeveratoio per gli animali domestici o in
contenitore per il mangiare del maiale o delle galline.
Il pantesco di un tempo non era solo contadino ma anche fabbro e
fallegname in quanto doveva saper "cunzare" cioè riparare gli arnesi del
suo lavoro "la zappa, l'aratro, la falce).
Oggi molti terreni non ricordano più il passo dell'uomo e tanto meno la
sua mano laboriosa...
Il lavoro della donna pantesca di un tempo
Nell'800 e nella prima metà del 900 la donna pantesca non aveva tempo di
oziare o di dedicarsi alla cura del suo volto: il trucco era indice di
mal costume ! I capelli bianchi facevano capolino fra la chioma nera che
con il tempo andava sempre più scomparendo e la donna non si poneva
alcun problema, né per la canizie, né per i chili di troppo dopo ogni
gravidanza. Era una volta sposata la moglie fedele e in un certo modo
sottomessa al marito a cui dava nell'800 il Voi; era la madre perfetta
che allevava i figli i quali davano del Voi ai genitori e ubbidivano
senza controbattere anche se maggiorenni e sposati.
Di solito la donna di campagna si alzava sul far dell'alba per preparare
"u trusciu" cioè il fagotto contenente quello che il marito avrebbe
mangiato "o tirrenu" cioè sul luogo del lavoro. Poi andava a mungere la
capra, accendeva il carbone per far cuocere la minestra che la famiglia
avrebbe mangiato la sera al rientro dai campi del "pater", il quale a
mezzogiorno sospendeva il lavoro e si rifocillava "u vuscottu"
accompagnandolo "cu i piscisciutti e lu tumazzu".
Dopo aver messo in ordine i letti, la donna lavava la biancheria nella
"pila" di pietra posta sotto gli archetti... e l'acqua... bisognava
attingerla con il secchio dalla cisterna. Tutto però era normale e
veniva fatto senza alcuna lamentela.
Le signore benestanti del capoluogo chiamavano la lavandaia per il
bucato che, una volta pronto, doveva essere stirato. Per ciò era
necessario accendere il carbone dentro il ferro e stare attenti ad non
ornare di nero un capo bianco.
E c'era d'accudire gli animali... le galline, i conigli, la capra, il
maiale e talvolta anche la mucca, e inoltre c'era da innaffiare "u
magnanu" dove crescevano sedano, basilico, prezzemolo, menta, lattughe,
melanzane e peperoni.
Riordinare la cucina era un'impresa. I detersivi di oggi sgrassano,
lucidano, profumano; un tempo, a Pantelleria, i piatti e le pentole si
lavavano con la cenere e le bottiglie con l'erba di vento.
Nel periodo estivo, quando lo zibibbo era molto maturo, la donna faceva
la marmellata e preparava anche i pomodori secchi, "u strattu" cioè
l'estratto di pomodoro o legava i pomodori con la "disa" per appenderli
nel magazzino dove in un angolo si conservavano i "bastarduni", mentre
sui tetti le zucche gialle.
Quando i fichi erano maturi la donna li esponeva al sole dopo averli
accuratamente tagliati per farli essiccare e conservarli con l'alloro
come frutta secca per la stagione invernale. Al tempo delle olive
preparava la salamoia per conservarle, mentre esponeva quelle nere al
sole per fare i "passuluna". Ogni settimana preparava il pane e per ciò
bisognava "camiare u furnu". A tutto ciò si aggiungeva il lavoro extra
nel periodo natalizio, pasquale e in occasione di un matrimonio o di un
battesimo. Specie nel periodo prenatalizio le donne di Pantelleria
preparavano "i mustazzola" e "i squadate".
Partecipavano con spontaneità e slancio nella collaborazione dei dolci
perchè quella era occasione di "stare insieme", di distrarsi.
Non vi era donna che non sapesse fare mustaccioli, biscotti,
pasticciotti, ravioli dolci, cannoli, "cassateddre" e "cannateddre" e
tutt'oggi è rara quella donna che non si interessi dell'arte dolciaria.
E quando si uccideva il maiale doveva la donna di Pantelleria conservare
la carne dopo averla condita con sale, pepe e semi di finocchio e fare
la salsiccia.
Il lavoro della donna riguardava anche i lavori agricoli: raccoglieva
capperi, olive, aiutava il marito a fare la bionda o a curare lo
zibbibbo nello stenditoio e infine a fare "i coccia" cioè a sgrappolare
l'uva passata nella potassa.
La donna dei secoli passati riusciva a trovar tempo per filare e per
tessere onde confezionare con la tela biancheria, lenzuoli, asciugamani,
tovaglie, vestiti. Le donne filavano il cotone grezzo "u macanuddiu",
servendosi della "ruddena" e confezionavano con gli aghi calze e
maglioni. Le ragazze, oltre ad aiutare nel lavoro domestico la madre,
ricamavano il loro corredo nel tempo libero, quasi tutte le donne
avevano a casa la macchina da cucire.
Il salotto delle epoche passate era "u passiaturi" che vedeva la donna
far quattro chiacchiere con la "Zza Maria" che tornava a casa dopo aver
raccolto l'erba per i conigli o la cicoria e la "cardeddra" che cresceva
spontanea dopo le prime piogge.
Tutte queste attività rendevano la vita abbastanza faticosa ma allora
bastava poco per rendere felice la donna: uscire la domenica per andare
in chiesa, andare a ballare nei circoli nel periodo del carnevale,
partecipare alla festa di un matrimonio, fare la serenata agli sposini.
Il passatempo del pantesco
Dopo il duro lavoro dei campi, il pantesco si concedeva, per lo più il
sabato sera o la domenica, un po' di relax, nonché di rapporti sociali.
Si recava pertanto al circolo e si incontrava con gli amici con cui
giocava a carte. Quando non pioveva e non soffiava impetuoso il vento,
giocava con bocce di legno negli spazzi delle mulattiere.
Per il campo di bocce si doveva attendere tanto... solo dopo la seconda
guerra mondiale venne costruito nelle contrade più popolate e a
Pantelleria centro "u trattu" cioè il tratto.
Le donne erano solite riunirsi in casa di un amica per il gioco del
"minicu", almeno quelle a cui piaceva il gioco delle carte. Il due di
spade, il "minicu", dava diritto a chi lo riceveva di vincere la posta
che di solito consisteva in un pugno di mandorle.
Il gioco dei dati era un'altro passatempo femminile. Si svolgeva in una
stanza nel centro della quale le donne a turno gettavano i dati. Non va
dimenticato il gioco della tombola che riuniva nelle serate invernali ed
in particolare nelle feste natalizie la famiglia attorno al tavolo.
Vanno infine menzionate le "serenate" che si facevano agli sposini o
agli amici, nonché "i viddiate" cioè le piacevoli riunioni di amici la
sera, in particolare nel periodo autunnale per sgrappolare l'uva bionda
o per confezionare la malaga; intanto le comari "sparlavano,
strascinavano" o meglio facevano la cronaca degli avvenimenti "...sapiti...
a fiddia du Zzu Cicciu ffuiu cu u fiddiu...", spesso la più anziana
narrava "li cunti", cioè le favole, per tenere svegli i bambini che
davano il loro contributo anche minimo nella raccolta degli acini.
Uno spazio particolare merita "il Circolo" che era e continua ad
essere, per il pantesco, la casa comune, il luogo d'incontro di tutte le
famiglie e seguiva e segue la vita individuale di tutti i soci con i
segni esteriori come la bandiera con il fiocco bianco o nero a secondo
gli eventi lieti o tristi. Solitamente nelle pareti del circolo vi è
l'elenco dei soci deceduti per cause naturali o di guerra. Un tempo
quante storie d'amore sbocciavano nel circolo.
Un tempo stringere fra le braccia la ragazza che piaceva era per il
giovane una realtà meravigliosa mentre le note di una languida musica si
diffondevano nella sala e la ragazza, apparentemente indifferente,
continuava a tenere la mano sull'omero del giovane, per distanziarlo.
Era una festa per tutti il carnevale a Pantelleria: per giovanissimi,
giovani, anziani e vecchi. E cera il ballo dei "picciotti" e allora gli
adulti seduti ammiravano ballare i piccoli.
Le sedie erano disposte nel circolo ad due e a tre file e anche a
quattro. Nella prima fila prendevano posto i bambini, nelle altre le
donne. L'uomo invitava la donna facendo l'inchino, se questa però era in
terza o quarta fila, le faceva un ceno con il dito. Capitava spesso che
al posto della donna desiderata, si alzasse un'altra e il cavaliere per
correttezza ballava con lei. Durante il ballo donna e cavaliere non
parlavano... e due innamorati segreti si scambiavano il bigliettino...
Per carnevale a Pantelleria c'erano le maschere e ci sono ancora
travestimenti... da parte di chi non è socio o di chi è a lutto. Alle
maschere era ed è concesso di fare tre balli. Un tempo non molto lontano
si ballava fino all'alba ed oltre e si chiudeva il divertimento con una
spaghettata in casa di un amico prima di andare a dormire.
Il carnevale a Pantelleria è famoso non per i suoi carri o le maschere,
ma per la sua durata che va dall'otto dicembre sino alla ceneri.
Non in tutti i circoli si balla il sabato, ogni circolo ha il suo giorno
stabilito.
Nei circoli delle frazioni poco spaziosi, per consentire a tutti gli
uomini di ballare e di divertirsi si faceva uso della coccarda di colore
bianco, rosso e verde. Era compito del capo sala annunciare, prima che
le note musicali si diffondessero, che era il ballo della coccarda
bianca... e così via.
Nel capoluogo dell'Isola, prima del secondo conflitto mondiale, vi erano
molti circoli e per l'ammissione a socio si teneva presente il ceto
sociale.
Al circolo "Cossyra", che aveva locazione nel piano terra della
palazzina del Barone Garsia, erano ammessi i notabili dell'Isola. Era
d'obbligo l'abito da sera per le signore e per le signorine, per l'uomo
era di rigore l'abito nero.
Del circolo Marina e Commercio erano soci gli uomini di mare ed i
commercianti.
La Casina degli Operai, il Circolo Giovanile e la Tinozza erano gli
altri circoli presenti a Pantelleria centro.
In una sala detta "Il Veglione" s'insegnava ai giovani l'arte della
danza.
Nelle contrade di Pantelleria esistono, come nel tempo passato, i
circoli di sotto elencati:
A Bukkuram, La Casineddra, a Rekhali Il Circolo Roma, il Circolo
Ausilio, a Bivio Monastero, il Circolo Dante, a Khamma, il Trieste, il
Concordia, U Fossu e il Koutheck di recente istituzione, a Tracino
Vittorio Veneto, Vedetta d'Italia, Italia Redenta e Produttori Tracino,
a Scauri il Circolo Unione, il Circolo Agricolo (1882), a Grazia il
Circolo Cesare Battisti, a Sibà il Circolo Cavour, a San Vito l'Unione
Agricoltori, oggi a Pantelleria centro, non sono presenti i circoli
precedentemente menzionati, pertanto si registra la presenza di tre
nuovi circoli, Ogigia, Sporting e Columbus e dati i tempi non esistono
barriere socio-culturali.
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